Il Brand Journalism alla prova dei fatti: l’intervista a Mariagrazia Villa

Il Brand Journalism alla prova dei fatti: l’intervista a Mariagrazia Villa

Alberto Maestri Pubblicato il 12/8/2023

Sempre di più, le aziende diventano (o aspirano a diventare) media company. Lo fanno principalmente attraverso:

  • un progressivo processo di inserimento in organizzazione di figure dal mondo della comunicazione e del giornalismo;
  • una costante e intensa attività di produzione contenuti autentici, rilevanti, informativi (content factory e social reporting)

In un contesto determinato dal content continuum, ovvero dalla produzione senza soluzione di continuità di contenuti da parte di chiunque, in che modo tale trasformazione in media company può essere fatta?

Si tratta di una domanda fondamentale per la comunicazione di qualsiasi impresa, vista la posta in palio in termini di risorse in gioco e risultati attesi. Ho voluto allora continuare ad approfondire il tema del brand journalism attraverso una delle voci più autorevoli in Italia e non solo. Parlo di Mariagrazia Villa: giornalista culturale formata professionalmente nel Gruppo Barilla, per il quale ha diretto un brand magazine online e scritto 38 libri. Docente alle Università IUSVE di Venezia e Verona e di Parma. Autrice di diversi volumi sulla comunicazione, tra cui Brand Journalist ed Ethics Gym – entrambi recentemente pubblicati dall’Editore FrancoAngeli.

Buona lettura! 🙂

Buongiorno Mariagrazia, e benvenuta. Una prima domanda per iniziare: chi e cosa fa il Brand Journalist?

Buongiorno a voi. Oggi, un brand racconta perché esiste (purpose), quali obiettivi vuole raggiungere (vision), come intende farlo (mission), per che cosa si batte (values) e in che modo si differenzia dai competitor (positioning).

La figura professionale del Brand Journalist si concentra soprattutto sul purpose, i values e il positioning e la sua attività consiste nel fare informazione per conto e a beneficio del brand, utilizzando tutti i mezzi, gli strumenti e le tecniche del giornalismo tradizionale per raccontare ciò che ruota attorno a una marca. Nel mio libro ho spiegato che il giornalista aziendale può narrare il mondo del brand, la sua storia e le persone che ne fanno parte, ma anche il settore di mercato cui l’impresa appartiene raccontando, per esempio, il contributo offerto in termini di ricerca e sviluppo, e l’universo valoriale in cui il brand crede, che può essere strettamente inerente al suo DNA produttivo, economico o commerciale o distaccarsene.

Quale è la differenza tra Brand Journalism e Content Marketing?

Il Brand Journalism è nato per rispondere al bisogno delle aziende di interagire con i propri pubblici di riferimento, perseguendo finalità informative, e non di marketing. Il Brand Journalist ha la forma mentis di un giornalista e, di conseguenza, è un professionista che non ha obiettivi di promozione del prodotto/servizio o di natura commerciale.

Non solo: è tenuto a rispettare l’etica e la deontologia professionale degli operatori dell’informazione, per cui, ad esempio, non può fare pubblicità. Il Content Marketing, invece, è un approccio di marketing strategico per la creazione e la distribuzione di contenuti di qualità, pertinenti e coerenti, per attrarre e acquisire un pubblico chiaramente definito, con l’obiettivo di fare business.

È vero che, nel presentare i prodotti o i servizi dell’azienda, il Content Marketer dovrebbe fornire agli acquirenti informazioni costanti e di valore in modo da renderli più preparati e ben disposti verso il brand, ma non utilizza i mezzi, gli strumenti e le tecniche del giornalismo e ha obiettivi commerciali, non di informazione. Brand Journalism e Content Marketing hanno, però, un punto di contatto: entrambi mirano a costruire visibilità, credibilità e autorevolezza presso i clienti e all’interno del proprio settore di competenza per creare relazioni proficue e durature, il primo, per aumentare le vendite di prodotti o servizi, il secondo.

Ma il Brand Journalism “si fa sempre allo stesso modo”? Oppure ci sono stili, necessità, declinazioni in funzione di specifiche variabili?

La modalità lavorativa del Brand Journalist è sempre la stessa: raccogliere, selezionare, ordinare, elaborare e diffondere le notizie. Lo stile, invece, cambia in base a queste tre principali variabili: il tema affrontato, il pubblico di riferimento, i canali di diffusione adottati.

Il giornalista aziendale può affrontare argomenti che richiedono approcci differenti: parlare di tecnologie digitali non è come disquisire di orsetti gommosi. Inoltre, può rivolgersi a una platea di esperti o di neofiti, di giovani o di adulti e così via. E può avvalersi di mezzi digitali o analogici:

  • il sito ufficiale, se concepito in termini informativi e non solo istituzionali
  • il brand magazine (sia online che cartaceo)
  • il blog aziendale e altri media di proprietà (tv, radio)
  • i social network
  • i branded podcast
  • le app per dispositivi mobili
  • i white paper e gli e-book, se caratterizzati da un approccio giornalistico.

Scrivere le news per il sito dell’azienda, per esempio, è diverso dal fare un post su Instagram.

Chi “fa bene” il Brand Journalism?

All’estero, alcune aziende hanno lasciato il segno.

Penso a Red Bull che, oggi, con tutti i suoi progetti di brand journalism, è più una media company che un’azienda produttrice di bevande energetiche. Ma anche alla multinazionale di pneumatici Michelin che, con la sua storica Guida nata nel 1900, ha dato vita a uno dei primi riusciti esempi di Brand Journalism nel mondo, oppure alla General Electric con il suo GE Report che racconta storie legate al mondo dei veicoli aerospaziali, dell’energia e della ricerca o, ancora, a Basecamp, che produce software e applicazioni web per la gestione di progetti aziendali e, con il suo podcast Rework, indaga i modi migliori per condurre il proprio business.

Tante aziende, anche in Italia, stanno facendo Brand Journalism, bypassando l’intermediazione dell’apparato informativo tradizionale. Alcune stanno addirittura facendo meglio dei mainstream media: più copertura delle news e più qualità dell’informazione.

Le case history italiane sono legate a ottimi brand magazine: per esempio, Aboca Live Magazine dell’azienda Aboca per chi vuole approfondire idee, fatti, opinioni, notizie e anche parecchi dubbi sul tema del rapporto tra uomo e natura, Changes, il brand magazine digitale del Gruppo Unipol, che parla di cambiamento, e lo rivolta come un calzino, oppure Fine Dining Lovers, progetto editoriale del Gruppo Sanpellegrino dedicato a coloro che amano mangiare bene e sperimentare a tavola in modo raffinato.

Ma il Brand Journalism lo possono fare solo le grandi aziende? Oppure c’è spazio anche per le PMI?

Il Brand Journalism non è solo per le grandi aziende: anche quelle medio-piccole possono trarne giovamento. Un progetto di giornalismo d’impresa non richiede un impegno eccessivo dal punto di vista dei contenuti né delle risorse necessarie, professionali ed economiche.

Non solo: per un’azienda di dimensioni contenute il giornalismo d’impresa è ancora più utile, in termini strategici, di quanto lo sia per i brand molto noti, spesso di proprietà di multinazionali. Grazie al giornalismo aziendale, una piccola realtà può conquistare sia la brand awareness, la notorietà del marchio, sia  la credibilità, un valore fondamentale in qualunque settore, anche nel B2B.

Fare Brand Journalism aiuta l’azienda a porsi come fonte autorevole di informazione nel suo ambito di attività e a diventare un punto di riferimento affidabile per il suo pubblico, che siano consumatori o buyer del mondo business: comunicare per informare (e non per vendere), rispettando la deontologia e l’etica del giornalismo, trasforma il brand in un esperto riconosciuto nel suo campo e degno di fiducia.